Sono stata alla mia prima conferenza stampa romana, alla casa del cinema di villa borghese -proprio per rispettare tutti i clichè- di un film italiano in uscita abbastanza importante, “Una vita possibile” di Ivano De Matteo, con Margherita Buy e Valeria Golino. All’ingresso l’ufficio stampa non vuole vedere nessuna mia credenziale -che ho comunque schreenshottato sul cellulare, in un momento di crisi di precisione che non riaccadrà mai- ma solo sapere se ho confermato. Anche questa conferma della conferma basta farla a voce .
Nella sala praticamente non c’è nessuno sotto i 60-65 e quindi neanche nessuno non vestito con larghi vestite beige: siamo tutti concentrati al centro, con parecchie sedie blu vellutato vuote.
Gli unici abbastanza giovani siamo io e due ragazzi due posti più in là che commentano Fiorentina-Roma alternandola a considerazioni sul telefilm “Transparent” (che però pronunciano Transpàrent, per qualche motivo); sono anche forse gli unici romanisti al mondo a non essere contenti della perdita della Juve, perchè così Garcia non va all’Inter (quando mi introduco inventandomi che a la signora in giallorosso hanno detto che potrebbe tornare alla Roma mi ignorano fino alla fine dei miei giorni); a parte loro c’è anche una donna sotto i 40 che siede affianco a me e che piange disperata fino alla fine della proiezione, ma in quella maniera silenziosa che usano certe donne per non far vedere che stanno piangendo anche se se ne sono accorti tutti .
Il film non è granchè, triste più che drammatico, probabilmente non aiutato dal non facile tema (la violenza sulle donne e come superarla: amicizia più che piscologhi) ed alla fine dunque non applaude quasi nessuno: questo può avere come ragione anche il fatto che al primo accenno di titoli di coda si siano tutti fiondati all’uscita grazie alla dritta di qualche gola profonda che nel foyer veniva offerto un caffè con dolcetti, alcuni dall’aspetto troppo poco italico -una nota giornalista al mio fianco si è fatta spiegare cosa ci fosse in un biscotto, in cui si vedeva esserci uvetta e sesamo, dal cameriere, che ha appunto detto “uvetta e sesamo, signò” – motivo per cui al finire dei normo-biscotti al cioccolato c’è stato un rientro abbastanza in tempo in sala per la conferenza stampa.
Durante il momento interviste, proprio come in qualsiasi altra conferenza mondiale, la gente non fa domande tanto quanto esporre come la pensano loro sul film: un uomo, che rimane in piedi all’angolo come “il tulipano nero” de la stella della senna , dice che non gli è piaciuto in certi punti, il regista risponde senza guardarlo in faccia com’è duopo in questi casi-critica. Un altro, forse per dare un certo tono alla conferenza che rischia di divenire troppo biasè (d’altronde hanno invitato persino me), dice “siamo tutti di ritorno dal festival del cinema di Venezia” . Anche lui è cattivissimo: vuole sapere perchè il film non è stato preso a Venezia, semmai fosse stato presentato (e se non è stato presentato, perchè . #veneziacentrico) .
La Golino risponde allegra al dibattito, quando invece non interpellata guarda in giro alla Golino, ed in alcuni momenti sembra proprio che mi fissi, anche perchè tutti quelli che fanno le domande sono o ai lati o affianco a me, come essere finita in un triangolo delle bermude del protagonismo. Ah, e anche perchè ho una maglia rosso fuoco che sembra un babydoll (l’unica altra pulita aveva su scritto BURGERS AND FRIES).
C’é anche una cosa che non ho mai visto prima: a dare il microfono per le domande è la stessa ufficio stampa, che come terzo lavoro si da anche quello di correggere la gente che continua a dire Di matteo invece che De matteo. De Matteo dice che non fa niente, che a volte lo chiamano anche De Matteis: potrei prendere parola e dire “Come il pretore di Latina!”, scatenando l’imbarazzo generale o qualche risatina isterica (oltre che l’”ehm si!” di De Matteo), ma mi faccio sfuggire il momentum.
La Buy a circa metà press conference inforca degli occhiali scuri solo nella parte alta: così l’ avevo visti fin d’ora solo in una copertina di un disco e a Sandra Mondaini.
Me ne vado prima del finale, con un cameriere che mi saluta (ma forse lo conosco e non me lo ricordo, e poi ricordatevi della maglietta) e con la convinzione che non credo mi abbiano dato un decaffeinato. Anch’io quando facevo la cameriera quando portavo i caffè dicevo “…e per lei, il suo decaffeinato!”, pescando a caso da un vassoio in cui tutti i caffe erano espressi tali e quali, beccandomi anche complimenti per essermelo ricordata, a cui rispondevo con una faccia stupita come a dire “ma le pare che mi sarei mai scordata?”
ah,che bei tempi. E che bei lavori.