“Siamo affranti dal dolore; vi comunichiamo che le ricerche di Daniele e Tom sono concluse”.
Ormai si sapeva che era inevitabile, ma ugualmente il comunicato della famiglia di Daniele Nardi è una stilettata. Replicata dal tweet dell’ambasciatore italiano in Pakistan, Stefano Pontecorvo, che posta anche la fotografia inviatagli da Alex Txikon e che mostra i corpi di Daniele Nardi e Tom Ballard a circa 6000 metri. Resteranno là, sulla via che volevano percorrere e che era il sogno immutabile dell’alpinista italiano, che ha lasciato la propria epigrafe: “Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile”.
Tutto il possibile lo ha fatto Alex Txikon al comando di una generosa e coraggiosa squadra composta dai suoi tre compagni giunti con lui dal K2 e da altrettanti alpinisti pakistani, con in testa Muhammad Ali, che come il basco vanta la prima salita invernale del Nanga Parbat. Txikon ieri mattina è arrivato a Skardu via terra, dopo una lunga marcia a piedi insieme a Ignacio De Zuloaga, Felix Criado e Josep Sanchis, caricati di tutto il materiale che avevano portato per favorire le ricerche dei due alpinisti dispersi sullo Sperone Mummery dal 24 febbraio, più tutto il loro materiale, recuperato a campo 2 e al campo base. E dopo un lungo viaggio in auto. In totale, hanno passato 4 giorni quasi senza dormire e 2 in cui hanno mangiato solo quanto offerto generosamente loro dalle poche (6) famiglie che abitano il minuscolo e povero paese di Ser, nella valle del Diamir , dominata dall’immensa mole del Nanga Parbat.
Alex, quando avete individuato i corpi di Nardi e Ballard?
“Il 5 marzo, esplorando la parete con il binocolo, avevo visto qualcosa. Dopo aver parlato col fratello di Daniele, Claudio Legrand Nardi, il 6 siamo andati alla via Kinshofer, al mattino molto presto e scendendo li abbiamo visti. La prima cosa che ho fatto è stato localizzarli. Li abbiamo visti molto chiaramente, intorno ai 6000 metri. Eravamo in 12 al campo base e tutti abbiamo certificato che Tom e Daniele stavano mettendo le corde fisse”.
Quindi cosa pensa sia accaduto?
“Credo sia prematuro parlare di quanto è successo, ma nell’ultima conversazione, il 24 sera, Daniele aveva detto che faceva molto freddo e c’erano folate di vento molto forti. Avevano attrezzato fino a 6300 metri e stavano per scendere a campo 4 per riposare e passare la notte. Nella discesa il vento deve averli presi e a quell’ora, complici la grande stanchezza e le condizioni così avverse, la situazione deve essere diventata una trappola mortale”.
Cosa ha provato quando si è reso conto che effettivamente aveva individuato i corpi?
“La prima sensazione è stata di tranquillità, calma. Perfino sollievo pensando alle famiglie. Perché sapevamo che era difficile trovarli in vita e quindi in realtà eravamo lì per fornire informazioni. Era come trovare un ago in un pagliaio. Perciò eravamo soddisfatti, ma nello stesso sono stati momenti complicati, emozioni difficile da assimilare. Sia per le circostanze in cui si trovano i corpi, sia per il dover dare la notizia alle famiglie. Molto difficile parlare con chi in quelle ore stava soffrendo. Dover trasmettere la realtà e la crudezza delle immagini. Non è stato per niente facile, soprattutto avendo scalato con Daniele e sapendo che aveva tutta la vita davanti ed era appena diventato padre. Tom era ancora più giovane. E poi stare al campo base smontando le loro tende, avendo cura delle loro cose, che ancora sono con noi qui a Skardu… Quindi ti passano tante cose per la testa”.
Anche domande sul senso dell’alpinismo?
“No. Tutta la squadra, noi e gli alpinisti pakistani, in quei momenti così difficili abbiamo solo pensato ad aiutare le famiglie di Tom e Daniele. E la cosa più semplice era pensare che, se toccasse a noi essere in questa stessa situazione, vorremmo che altri facciano per noi quello che abbiamo fatto”.
Ma avevate coltivato una speranza di trovare Nardi e Ballard vivi?
“Quando voli in elicottero dal campo base del K2 e vai a Skardu e il giorno dopo sei già sopra al Nanga Parbat un po’ ti senti immortale, invincibile. Allora ci speri. Ma se analizzi tutte le informazioni e quello che è successo anche in passato sugli Ottomila… Però sì, per qualche momento ho pensato che fosse possibile, perché si tratta di alpinisti forti e soprattutto esperti. Daniele è stato 5 volte allo Sperone. Sono d’accordo con Claudio: mi ha detto che Daniele gli ripeteva che, una volta arrivati al campo 3, la via era sicura. Ci sono canaloni dove non c’è il pericolo di valanghe”.
Ha pensato qualche volta al K2, che aveva lasciato, e al suo tentativo di prima invernale?
“No, pensavamo soltanto a far le cose bene. Che non si perda niente delle cose di Daniele e Tom. Abbiamo pensato solo alla squadra lasciata là, ai cinque sherpa della nostra spedizione. Ecco, non abbiamo pensato alla montagna, ma alla gente che era rimasta là”.
Lei conosceva bene Nardi. Cosa ha pensato dopo aver dovuto constatare la sua morte?
“Mi sono venuti in mente molti ricordi di quando abbiamo scalato insieme. Soprattutto ho pensato alla spedizione invernale del 2015-16. Ma ancora più a quella dell’anno prima. A marzo del 2015 siamo arrivati vicinissimi alla cima del Nanga, noi insieme a Muhammad Ali. Se quell’anno ce l’avessimo fatta, forse non sarebbe successo niente: né la salita dell’anno dopo, né staremmo dove siamo e non parleremmo di quello che ci stiamo dicendo. Sono molto triste per la famiglia di Daniele e nel pensare a Tom, che ha sua madre sul K2 e ora lui è qui sul Nanga Parbat. Si va a riunire con sua mamma molto prima del tempo, sfortunatamente. Non lo conoscevo personalmente ma da quello che potuto scoprire con il resto della squadra, vedendo le immagini dei video, era una persona più silenziosa e introversa. Al campo base tutti ci hanno parlato molto bene di loro. Quello che possiamo e cerchiamo di fare da qui è trasmettere il nostro calore e il nostro affetto alle famiglie, fargli sapere che siamo a loro piena disposizione, come dal primo momento. Sappiamo che per noi ora è finita, ma per i familiari comincia una vita senza Tom e Daniele…”.
Abbiamo visto le immagini delle operazioni di ricerca e anche le immagini delle due valanghe che sono scese dai grandi seracchi mentre eravate in azione…
“Può sembrare che abbiamo rischiato molto, ma è vero che la difficoltà della via comincia a 6000 metri mentre la pericolosità è soprattutto da campo 1 a campo 3. Serve velocità e molta attenzione per minimizzare gli inevitabili rischi. E questo è quello che abbiamo fatto. Le valanghe per fortuna non ci hanno coinvolto. Il problema è che il Nanga Parbat a marzo non ha vie di mezzo. Al sole c’è molto caldo e nell’ombra e di notte fa moltissimo freddo. Questo è il detonatore di tutte quelle valanghe. La via ci è sembrata in buone condizioni. Forse più sicura di quanto si pensa”.