Testimonianze raccolte fino al 1700 rivelano che a lungo, è stato attivo un potente vulcano che ricopriva spesso di fumo quasi tutte quelle aree, arrivando a volte anche ad oscurare del tutto il sole.
Dell’esistenza di quell’antico cono eruttivo ci sono molte conferme geologiche ma anche letterarie: ne hanno parlato per esempio il grande poeta greco Omero.
Nel libro decimo dell'”Odissea” esiste una traccia che possa portare all’individuazione del sito di un antico vulcano situato qui in Italia sulla costa pontina?
Ed è possibile che elementi, apparentemente in grado di confermare questa tesi, fossero ancora riscontrabili in tempi a noi molto vicini, cioè addirittura alla fine del Settecento?
Ad avanzare organicamente l’ipotesi della possibile esistenza, in tempi poi non troppo remoti, di un vulcano attivo in quelle aree che all’epoca erano le Paludi Pontine è stato nel diciottesimo secolo l’abate Domenico Testa, un naturalista veneto di fama internazionale che nel 1784 scrisse su quest’argomento quel che ora si definirebbe come un saggio monografico, da lui intitolato “Lettera sopra l’antico Vulcano delle Paludi Pontine”.
Si tratta di una trattazione accurata di indubbio interesse che “Mystero” ha potuto consultare soprattutto grazie alla collaborazione del professor Marco Ciardi, ricercatore in “Storia della Scienza” presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna: Ciardi è quel valente studiosi che molti già conoscono perché autore dell’ottimo e approfondito libro “Atlantide: una controversia scientifica da Colombo a Darwin” (Carocci Editore), che raccomandiamo caldamente a chi non l’avesse letto ancore.
Ma quali erano gli elementi concreti in base ai quali nel 1784 l’abate Testa è giunto a formulare la sua tesi sull’esistenza di un vulcano attivo nelle Paludi Pontine?
Innanzitutto, l’analisi di alcune caratteristiche geologiche e morfologiche di quel territorio come quell’illustre studioso del Settecento evidenziava sin dalle prime pagine del suo lungo e approfondito scritto: “Le cave di vera pozzolana, onde abbondano que’ luoghi, la copia delle tufe, che han dato fino il nome ad una di quelle contrade, che chiamasi perciò la Tufeta, l’esalazioni sulfuree, che sorgono ancora da alcuni sotterranei di Terracina, i ruscelli d’acqua parimenti sulfurea che s’incontrano presso Sermoneta, la fertilità di quelle terre… sono più che bastevoli a dimostrare che quel tratto di paese ingombrato ora dalle paludi… è stato una volta soggetto alle eruzioni d’un vulcano. L’acque sulfuree possono acconciamente chiamarsi le medaglie de’ vulcani, ad imitazione del Fontanelle, che chiamo’ graziosamente medaglie del del diluvio le conchiglie marine sparse pe’ nostri monti”.
Testa prosegue nel suo resoconto elencando un’altra lunga serie di considerazioni che a suo parere confermano la sua tesi su;;’esistenza di quell’antico vulcano, tesi che pero’ venne attaccata da un altro studioso dell’epoca, il Di Saussure, il quale commento’ la pubblicazione del saggio dell’abate obiettando che era del tutto privo di fondamento, non essendoci invece a suo parere nulla tra Mola di Gaeta e Velletri che potesse far pensare alla possibile presenza di un vecchissimo cono eruttivo. Allora quel grande naturalista veneto, l’abate Testa, gli rispose facendo presente che i recenti scavi voluti da papa Pio VI’ per bonificare le Paludi Pontine avevano mostrato in tutta la loro evidenza in quelle zone, una volta tolta l’acqua e il fango, la presenza sul fondo di numerosi e spessi “strati di lava, di tufa, di cenere chiara…” che a suo parere costituivano la “…infallibile prova di un antico vulcano”.
E all’obiezione avanzata da numerosi altri studiosi dell’epoca, secondo cui quel fatto era impossibile in quanto nessuno degli autori antichi, da Strabone a Dionigi di Alicarnasso, aveva mai scritto dell’esistenza di quel vulcano attivo, l’abate Testa con motivata decisione replico’ che questo voleva unicamente dire che ai tempi in cui gli autori ricordati in precedenza avevano scritto le loro opere il vulcano non solo era spento, ma che di esso si era “anche perduta la memoria”.
E poi il puntiglioso abate Testa aggiunse che comunque non era del tutto vero che non esistesse in nessun autore dell’antichità un richiamo a quell’antico vulcano pontino.
L’abate Testa riteneva infatti di averne trovato un indizio proprio in Omero e più precisamente nel libro decimo della sua “Odissea”.
Già, proprio in quell’Omero, sottolineava Domenico Testa, che Strabone aveva definito “principe dei geografi” e le cui descrizioni, almeno secondo Polibio, anche se spesso colorite con licenze poetiche, “hanno tutte un fondamento reale o nella storia o nella natura”.
Ma quale episodio nel Decimo Canto dell’Odissea aveva fatto pensare al naturalista veneto di aver trovato un’importante conferma delle sue ipotesi?
di Gianluigi Proia
da Mystero n.50
Foto di Michele Cuciniello